Oggi il Paraclito scende ad abitare in mezzo a noi
La Pentecoste nell’innografia di Romano il Melode
La
Pentecoste come festa liturgica si celebra in tutte le liturgie cristiane cinquanta
giorni dopo la Pasqua, ed è una delle feste più antiche del calendario
cristiano. Ne parlano Tertulliano ed Origene nel III secolo come festa celebrata
annualmente, e già nel IV secolo fa parte del patrimonio teologico/liturgico
delle diverse Chiese; Egeria poi ne indica la celebrazione a Gerusalemme nella
seconda metà del IV secolo. Romano il Melode ne ha un kontakion di 18 strofe,
che segue quasi senza soluzione di continuità quello per la festa
dell'Ascensione del Signore. La strofa del proemio di questo inno è quella che
è entrata nell’ufficiatura bizantina della Pentecoste; è un testo molto bello
in cui Romano mette in parallelo da una parte la confusione delle lingue e dei
popoli a Babele (Gen 11, 5-7), e dall’altra l’unità e l’unisono creatisi tra
gli uomini e i popoli dopo il dono dello Spirito Santo: “Quando discese a
confondere le lingue, l’Altissimo divise le genti; quando distribuì le lingue
di fuoco, convocò tutti all’unità. E noi glorifichiamo ad una sola voce il
santissimo Spirito”.
Le due prime strofe del testo di Romano sono una
accorata preghiera indirizzata a Cristo dalla bocca della Chiesa nell’attesa
del dono dello Spirito. Cristo è invocato come colui che consola, che assiste
la comunità dei fedeli, come lui stesso ha loro promesso dopo la sua
Ascensione: “Non mi separo da voi. Io sono con voi e nessuno sarà contro di
voi”; è una preghiera a colui che è sempre presente nella vita dei discepoli:
“…non allontanarti dalle anime nostre. Avvicinati a noi, avvicinati tu che sei
ovunque! Come sei rimasto per sempre insieme ai tuoi apostoli…”. Asceso in
cielo, il Signore continua sempre presente nelle anime degli apostoli, dei
battezzati: “…dopo essere assunto lassù, tu continui ad abbracciare il mondo di
quaggiù. Neppure un luogo è privo di te, o Infinito… poiché sei tu a sorreggere
l’universo riempiendo ogni cosa…”. Queste due strofe iniziali hanno dei temi
che dopo verranno raccolti in uno dei tropari del vespro della ufficiatura di
Pentecoste bizantina, e che poi diventerà preghiera iniziale di tutte le
ufficiature bizantine lungo l’anno, come invocazione allo Spirito Santo: “Re celeste, Paraclito, Spirito
della verità, tu che ovunque sei e tutto riempi, tesoro dei beni e datore di
vita, vieni ed abita in mezzo a noi, purificaci da ogni macchia e salva, o
buono, le anime nostre”.
Il kontakion continua con altre
cinque strofe che mettono in rilievo la figura di Pietro tra gli apostoli. È
lui che li raduna e che dirige la loro preghiera; Romano lo presenta come il
primo tra gli apostoli, come il pastore in mezzo agli agnelli: “…tra i
discepoli Cefa, come primo nel rango ad essi parlò…; Pietro li fece alzare per la
preghiera…, e insieme a lui si radunarono come agnelli intorno al pastore…”.
L’esortazione di Pietro alla preghiera inoltre ha un’indicazione chiara
all’alzarsi e inginocchiarsi, che fa pensare a un collegamento del nostro testo
con le “preghiere delle genuflessioni” fatte nella tradizione bizantina in
ginocchio la sera della Pentecoste o immediatamente dopo la Divina Liturgia
della festa: “Pietro li fece alzare per la preghiera e in mezzo a loro parlò dicendo:
«Preghiamo, inginocchiamoci, supplichiamo: facciamo di questa camera una
chiesa… Cantiamo e imploriamo rivolti a Dio…»”. Romano vede la preghiera degli
apostoli quasi come un documento firmato e sigillato che sale fino a Cristo
Signore che, accogliendola, manda sui discepoli lo Spirito Santo; inoltre
l’autore sottolinea come lo Spirito Santo discende su di essi per decisione e
volontà proprie, indipendentemente dal Figlio. Si tratta di una strofa che ha
ancora un sapore anti ariano, collegato sicuramente alla professione di fede
del concilio di Costantinopoli del 381: “Completate le loro suppliche, subito
le firmarono, le sigillarono con la fede e le inviarono lassù. Il Maestro le
lesse e disse: «Discendi, consolatore sovrano, non per mio ordine ma per tua
volontà: ti aspettano ormai i discepoli che io ho radunato per te e per il
Padre…»”.
La discesa dello Spirito Santo
Romano la descrive in altre cinque strofe, facendo una parafrasi del testo di
Att 2,1ss. Il luogo dove si trovano i discepoli riuniti, scosso dal vento
tempestoso, l’autore lo paragona a una barca scossa dalla tempesta nel mare e
la accosta alla pericope di Mt 8,23ss dove si narra la tempesta nel mare di
Galilea, calmata dal Signore: “…vi fu un suono all’improvviso come di vento
forte risonante dal cielo, riempì tutta la stanza di fuoco… Gli eletti, perciò,
vedendo la stanza scossa come una barca, esclamarono: «Signore, fa’ cessare la
tempesta e manda il santissimo Spirito»”. Inoltre Romano sottolinea come le
lingue di fuoco mandate dal cielo non bruciano i discepoli, bensì illuminano
loro la mente: “Lingue di fuoco li lambirono e andarono a posarsi sulle teste
degli eletti, senza bruciare i capelli ma illuminando le menti: le aveva
mandate per lavare e purificare il santissimo Spirito”. Ed è ancora Pietro che
in mezzo ai discepoli prende la parola per introdurre loro al significato del
prodigio che si compie in mezzo a loro; li esorta a un atteggiamento di fiducia
e non di paura, anche se la sua comprensione supera la loro intelligenza: “Pietro
disse: «Fratelli, rispettiamo ciò che vediamo senza porre domande! Nessuno
dica: che cosa è questo che vediamo?, poiché quello che si stà compiendo supera
l’intelligenza e sopravanza la comprensione»”.
Il fuoco mandato dall’alto non brucia né consuma coloro su cui
riposa, come un tempo i tre fanciulli nella fornace di Babilonia: “Non abbiate
paura, i carboni non bruciano! Non spaventatevi: questo fuoco non consuma!...
ricordate che una volta il fuoco accolse i tre fanciulli e non bruciò i loro
corpi…”. Inoltre le immagini del carbone che non brucia ci riporta l’immagine
del carbone ardente con cui le liturgie orientali indicano i santi Doni
eucaristici.
La discesa dello Spirito Santo
sui discepoli si manifesta nel dono delle lingue, nella loro capacità di farsi
eloquenti a tutte le nazioni: “Ripieni all’improvviso dello Spirito, tutti
incominciarono a parlare agli ascoltatori nel modo in cui questi potevano
udirli…”. La molteplicità delle lingue, pero, non toglie la semplicità e la
chiarezza della parola degli apostoli nell’annunciare l’unico Dio: “Quelli che
prima cucivano le reti ora disfano e vanificano le trame dei retori con la loro
più semplice parola. Essi proferiscono un solo Verbo in luogo di molti, essi
proclamano un solo Dio… Essi adorano l’Uno in quanto unico, il Padre
incomprensibile, il Figlio consustanziale e indivisibile e, uguale ad essi, il
santissimo Spirito”. La strofa conclusiva, di straordinaria bellezza, è un
canto all’annuncio della buona novella che i discepoli proclamano, e che Romano
riassume nell’intera economia della salvezza adoperata dal Signore Gesù Cristo:
“Celebriamo, fratelli, le lingue dei discepoli perché non con un discorso
elegante ma con la potenza divina hanno catturato noi tutti. Hanno preso la
croce di lui come canna, hanno usato le parole come filo ed hanno catturato il
mondo. Hanno avuto il Verbo come amo appuntito, la carne del Signore
dell'’universo è diventata come un’esca, che non conduce alla morte, ma trae
alla vita quelli che tributano venerazione e gloria al santissimo Spirito”.
P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
La
Pentecoste nell’innografia di Romano il Melode
Oggi
il Paraclito scende
ad abitare in mezzo a noi
ad abitare in mezzo a noi
La Pentecoste, cinquanta giorni dopo la
Pasqua, è una delle feste più antiche del calendario cristiano: già Tertulliano
e Origene ne parlano nella prima metà del III secolo. Romano il Melode ha un kontàkion
di 18 strofe, che segue quello per l’Ascensione. All’inizio il poeta mette in
parallelo la confusione delle lingue e dei popoli a Babele con l’unità e
l’unisono dopo il dono dello Spirito Santo: «Quando discese a confondere le
lingue, l’Altissimo divise le genti; quando distribuì le lingue di fuoco,
convocò tutti all’unità. E noi glorifichiamo a una sola voce il santissimo
Spirito».
Le due prime strofe sono un’accorata
preghiera a Cristo, che consola e assiste la comunità dei fedeli, come ha
promesso dopo la sua ascensione: «Non mi separo da voi. Io sono con voi e
nessuno sarà contro di voi».
Ed è una preghiera a colui 
Il kontàkion mette poi in rilievo
la figura di Pietro: «Tra i discepoli Cefa, come primo nel rango a essi parlò;
li fece alzare per la preghiera, e insieme a lui si radunarono come agnelli
intorno al pastore». Con un’esortazione che fa pensare a un collegamento con le
«preghiere delle genuflessioni» fatte in ginocchio la sera della Pentecoste o
dopo la Divina liturgia della festa. Romano vede la preghiera degli apostoli
quasi come un documento firmato e sigillato che sale fino a Cristo Signore che,
accogliendola, manda sui discepoli lo Spirito Santo.
Il luogo dove si trovano i discepoli
riuniti, scosso dal vento tempestoso, è paragonato a una barca nella tempesta,
con un accostamento all’episodio della tempesta sedata (Matteo, 8,
23-27): «Vi fu un suono all’improvviso come di vento forte risonante dal cielo,
riempì tutta la stanza di fuoco. Gli eletti, perciò, vedendo la stanza scossa
come una barca, esclamarono: Signore, fa’ cessare la tempesta e manda il
santissimo Spirito». Inoltre Romano sottolinea come le lingue di fuoco mandate
dal cielo non bruciano i discepoli, bensì illuminano loro la mente: «Lingue di
fuoco li lambirono e andarono a posarsi sulle teste degli eletti, senza
bruciare i capelli ma illuminando le menti: le aveva mandate per lavare e
purificare il santissimo Spirito». Ed è ancora Pietro che in mezzo ai discepoli
prende la parola per spiegare il prodigio: «Fratelli, rispettiamo ciò che
vediamo senza porre domande! Nessuno dica: che cosa è questo che vediamo,
poiché quello che si sta compiendo supera l’intelligenza e sopravanza la
comprensione».
La straordinaria strofa conclusiva è un
canto all’annuncio della buona novella: «Celebriamo, fratelli, le lingue dei
discepoli perché non con un discorso elegante ma con la potenza divina hanno
catturato noi tutti. Hanno preso la croce di lui come canna, hanno usato le
parole come filo e hanno catturato il mondo. Hanno avuto il Verbo come amo
appuntito, la carne del Signore dell’universo è diventata come un’esca, che non
conduce alla morte, ma trae alla vita quelli che tributano venerazione e gloria
al santissimo Spirito».
P. Manuel Nin
Pontificio Collegio Greco
Roma
(©L'Osservatore Romano 12 giugno 2011)